martedì 22 dicembre 2015

Recensione del film “Irrational man” di Woody Allen


Leggendo i quotidiani non possiamo fare a meno di renderci conto che in questi anni sta venendo sempre più a mancare il rispetto verso la vita altrui: spesso è sufficiente un diverbio tra guidatori di veicoli o addirittura il diniego di una sigaretta per trasformare una persona qualsiasi in assassino, tra l’altro neanche tanto propenso a pentirsi una volta messo di fronte al suo crimine senza senso.

Irrational man, 44esimo film  del contorto ed enigmatico regista newyorkese Woody Allen, tratta del farsi giustizia da sé, dell’autoconvincimento che compiere un misfatto a fin di bene possa essere giusto e di come il destino possa dare ad una vita piatta e senza senso una svolta inaspettata.

La storia si apre con l’arrivo in un college di provincia del professore di filosofia Abe Lucas (interpretato da Joaquin Phoenix che per l’occasione è dovuto ingrassare  15 chili), preceduto dalla sua fama di seduttore. Personaggio depresso in crisi esistenziale e dedito all’alcool, Abe affascina facilmente le donne di ogni età facendo leva proprio sul loro istinto da crocerossine.

Nel college sono soprattutto due le donne attratte dal suo cinismo e dal suo disinteresse per la vita, ognuna convinta di essere l’unica in grado di salvarlo dall’autodistruzione: la collega Rita e la studentessa modello Jill.
L’occasione per riscattarsi da un’esistenza ormai in totale declino viene offerta ad Abe dal caso, quando ascoltando in un bar lo sfogo disperato di una donna sconosciuta, sul punto di perdere l’affidamento dei figli a causa di un giudice corrotto, il protagonista della storia ritrova nuova linfa vitale nell’occasione di eliminare costui dalla faccia della Terra.

L’assassinio, studiato nei minimi particolari, riesce perfettamente e Abe dopo avere soppresso la vita del giudice ritrova un rinnovato interesse ed entusiasmo per la propria. Però Jill, la studentessa con cui ha intessuto una relazione, viene a conoscenza del suo crimine e quando un innocente viene accusato del delitto al suo posto lo minaccia di denunciarlo se non si costituirà. Il risultato del tentativo della ragazza di far comprendere ad Abe la gravità del suo gesto, però, non fa altro che sfociare nella progettazione di un secondo assassinio.

La storia, dotata di una colonna sonora dal ritmo piacevole, si snoda quasi completamente nella cornice del campus, in una calma piuttosto piatta interrotta ogni tanto da qualche battuta spiritosa. La passione di Woody Allen per la filosofia e la psicanalisi affiora in maniera evidente in questo thriller filosofico  che scherza sul desiderio inconscio di riuscire a commettere il delitto perfetto un po’ per noia e un po’ per aumentare la propria autostima e che ha il pregio di far riflettere lo spettatore sul recondito senso della  vita.
                

mercoledì 16 dicembre 2015

Recensione del film “Il professor Cenerentolo” di Leonardo Pieraccioni


Il professor Cenerentolo  scritto, diretto e interpretato dall’eclettico cinquantenne Leonardo Pieraccioni, contrariamente alle aspettative non è certo un film che fa sbellicare dalle risate. Si tratta di una commedia romantica non molto riuscita, dalla comicità tiepida, nella quale per accontentare gli amanti del genere si sarebbe dovuto almeno inserire qualche battuta in più.

La storia narra dell’ingegnere Umberto Massaciuccoli che per sottrarre al fallimento la sua piccola impresa di costruzioni tenta una maldestra rapina in banca, finendo direttamente in galera per 4 anni. Quando ha quasi finito di scontare la sua pena Umberto, che nel carcere inganna il tempo girando film educativi interpretati dai detenuti, ottiene anche il permesso di uscire dal penitenziario ogni giorno per lavorare nella biblioteca del paese, ma con rientro tassativo entro la mezzanotte.

Quando la sua vita sembra un fallimento completo, in quanto la sua ex moglie si risposa e la figlia adolescente non vuole più vederlo perché si vergogna di avere un padre con fama di ladro, Umberto incontra la bella insegnante di ballo Morgana (interpretata da Laura Chiatti). Sullo sfondo della meravigliosa isola di Ventotene popolata da eccentrici personaggi, questo moderno Cenerentolo si innamora perdutamente e non volendo confessare a Morgana di essere un detenuto, per incontrarla deve cimentarsi in fughe  rocambolesche.

Nel film il carcere di Ventotene viene presentato come una specie di improbabile villaggio per vacanze, inoltre la bravura di Laura Chiatti e la simpatia di Leonardo Pieraccioni non bastano a soddisfare lo spettatore che dal regista de Il ciclone si aspetta molto di più, perlomeno di uscire dalla sala in preda al buonumore.

venerdì 9 ottobre 2015

Uno strabiliante romanzo d’esordio: “L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome” di Alice Basso


L’Italia è un Paese nel quale si legge poco e si scrive molto: il numero di aspiranti scrittori che hanno pubblicato un testo negli ultimi anni è cresciuto in maniera esponenziale, con il risultato di un peggioramento generale della qualità dei libri. Viene allora da chiedersi se valga ancora la pena di leggere il romanzo di un esordiente. La risposta non può che essere affermativa, perché tra tanti libri deludenti e sgrammaticati si può ogni tanto scovare una perla rara, quale è il romanzo L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome, opera prima della trentaseienne milanese Alice Basso: condotto con intelligenza, leggerezza ed ironia, infarcito di qualche citazione colta qua  e là, il testo è un sorprendente tributo al mondo dei libri.

La storia racconta della giovane ghostwriter Vani Sarca dotata di una speciale prerogativa: l’empatia, ossia il saper cogliere all’istante l’essenza di una persona e il sapersi immedesimare negli altri, con il limite però di essere incapace di esprimere appieno le proprie emozioni più profonde.

Nel corso del suo lavoro per una casa editrice torinese, Vani Sarca incontra l’affascinante Riccardo Randi, scrittore di successo in crisi di ispirazione ed una imbrogliona autrice di saggi che racconta di improbabili contatti con angeli ed energie cosmiche.  Il rapimento di quest’ultima fa prendere al romanzo una piega poliziesca, mettendo in campo anche un burbero commissario che riesce a trasformare le doti intuitive della giovane ghostwriter in un mestiere, anche se mal retribuito.

Vani Sarca, personaggio interessante pieno di contraddizioni e sfaccettature, si aggira per le strade di Torino vestita sempre di nero con ai piedi un paio di anfibi, nascondendosi dietro ad un ciuffo corvino e ad un rossetto di colore viola; è apparentemente cinica, acida e asociale, ma speciale nel risolvere i problemi degli altri senza bisogno di utilizzare tante parole.


L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome è condotto in maniera scorrevole e colloquiale, è ricco di battute sarcastiche e presenta un intreccio avvincente e convincente, regalando un finale a sorpresa. Il lettore non può fare a meno di affezionarsi al personaggio Vani Sarca e può sentirsi confortato dall’annuncio  che questa storia è soltanto la prima di una lunga serie che la vedrà ancora protagonista.

mercoledì 23 settembre 2015

Recensione del film “Taxi Teheran”




Difficilmente chi ha avuto la fortuna di nascere e crescere in un Paese democratico si rende conto di cosa significhi non poter avere il riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero.
Taxi Teheran (titolo originale Taksojuht)è un film che  il regista, attore e sceneggiatore iraniano Jafar Panahi utilizza come strumento per raccontare al mondo esterno il tipo di società che il regime della Repubblica Islamica dell’Iran ha creato all’interno del proprio Paese vietando di rappresentarla attraverso immagini che possano  varcarne i confini.

Il cinquantacinquenne Jafar Panahi, da sempre impegnato nella lotta per la libertà di espressione, è stato arrestato nel 2010 per aver partecipato ad una manifestazione di protesta contro il regime iraniano; condannato a 6 anni di reclusione e a 20 anni di preclusione dal dirigere, scrivere e produrre film e rilasciare interviste, dopo essere stato incarcerato si trova ora agli arresti domiciliari. 

Il brillante cineasta iraniano è però  riuscito ugualmente da allora a girare altri 3 film in assoluta clandestinità. Tra questi, Taxi Teheran una volta varcato avventurosamente il confine del suo Paese ha raggiunto le maggiori rassegne cinematografiche,  conquistando nel 2015 l’Orso d’oro al Festival internazionale del cinema di Berlino nonché conseguendo il premio Fipresci.

La storia narra di un inesperto autista di taxi, interpretato dallo stesso Jafar Panahi, il quale attraversando con il suo mezzo le strade di Teheran si rapporta con pittoreschi passeggeri, ascoltando le loro opinioni sempre con un bonario sorriso sulle labbra. Il taxi, che va inteso come un luogo chiuso capace di eludere la censura, provvisto di telecamera fissa al centro del cruscotto, diventa così un teatro in movimento aperto verso il mondo esterno dove i passeggeri che salgono e scendono, uomini e donne, ricchi e indigenti, disonesti e galantuomini, possono raccontare l’Iran di oggi senza filtri.

È una fortuna che Jafar Panahi non abbia consentito al regime iraniano di spegnere il suo vivace spirito e che il suo amore per il cinema e per il suo Paese sia stato più forte di qualsiasi proibizione e vessazione, nella consapevolezza che sono proprio le tecnologie digitali a rendere sempre più difficile per i regimi totalitari impedire la libertà di espressione.


Taxi Teheran, sospeso tra documentario e narrazione, recitato da attori non professionisti i cui nomi devono restare anonimi  per ovvi motivi, racconta al pubblico di tutto il mondo,  con estrema leggerezza, la pluralità dei punti di vista  dei cittadini vessati dal regime iraniano. Jafar Panahi non ha potuto ritirare al Festival di Berlino il  premio alla sua meravigliosa capacità di raccontare, ma lo ha fatto coraggiosamente al suo posto la nipotina che ha recitato anch’essa nel film, regalando a tutti i presenti  minuti di intensa commozione.

venerdì 18 settembre 2015

Come organizzare un fantastico viaggio itinerante in Croazia


Essendo le strade della Croazia abbastanza in buono stato e per lo più asfaltate, il mezzo di trasporto che consente di visitare questo meraviglioso Paese in maniera più completa è l’automobile. Poiché le indicazioni stradali sono scarse, prima di partire è bene premunirsi di un navigatore satellitare aggiornato. Per un viaggio itinerante conviene prevedere un soggiorno di circa nove giorni, pernottando ogni notte in un albergo diverso.

Le strutture alberghiere sono di standard piuttosto basso ma pulite, mentre i ristoranti si attestano per lo più ad ottimi livelli, con menu a prezzi simili a quelli italiani. In queste zone non è necessario parlare inglese, in quanto molti abitanti comprendono l’italiano, ma spesso ci si sente rispondere esclusivamente nella lingua locale, piuttosto difficile da comprendere.

Iniziamo il nostro viaggio da Trieste e varchiamo  il confine con la Slovenia, che va necessariamente attraversata per compiere il nostro viaggio. Alla frontiera occorre acquistare il bollino da 15 euro che consente di transitare sulle autostrade di questa nazione per una settimana. La moneta corrente in Slovenia è l’Euro, mente in Croazia circolano le Kuna. Per evitare eccessive tasse di cambio, è sconsigliabile cambiare la valuta nelle banche italiane, visto che in Croazia gli sportelli bancomat sono presenti in grande numero.

La prima località slovena che merita una visita nel corso del nostro viaggio è Hrastovlje (in italiano Cristoglie), piccola località rinomata per la produzione del vino Moscato in cui sorge la chiesa romanica di Svetac Trojica (Santissima Trinità) costruita tra il XII e il XIII secolo, che conserva un importante ciclo di affreschi portato a termine nel Quattrocento,  rappresentante una celebre danza macabra con scheletri .

Proseguiamo quindi in direzione del mare e parcheggiamo l’auto a Koper (Capodistria) per passeggiare nello scenario tipicamente veneziano della bellissima Titov trg (piazza Tito), visitando anche la cattedrale del XII secolo. Lungo tutta la costa di Slovenia e Croazia si incontrano graziose spiagge che meritano una sosta di relax, ma ricordiamo che il fondale per lo più sassoso richiede scarpette  idonee.

Scendendo verso sud, su una stretta penisola incontriamo poi Pirano con la sua incantevole piazza Tartinijev trg. Notevole è anche  il panorama dal Duomo.

Per gli amanti degli stabilimenti termali, Portorož merita una sosta che consente di immergersi nelle calde acque salatissime vecchie di 30.000 anni e di godersi il grande sauna park.

Entriamo quindi in Croazia, dove le autostrade sono a pagamento con pedaggio ai caselli. Rispettiamo rigidamente i limiti di velocità perché le pattuglie di polizia sono numerose e intransigenti, inoltre viene richiesto pagamento immediato della sanzione in contanti.

La prima località croata meritevole di una visita che incontriamo è Poreĉ  (Parenzo). Passeggiamo lungo la  bella strada decumana, ideale per lo shopping, e visitiamo la basilica Eufrazijeva, sorta nel VI secolo e rinomata per i suoi pregevoli mosaici.

Proseguendo verso sud, incontriamo uno dei più bei fiordi dell’adriatico: il Limsky kanal (Canale di Leme)

Incantevole è anche Rovinj  (Rovigno) con il suo  complesso architettonico di stampo veneziano.

La importante città portuale di Pula (Pola) ospita un grande anfiteatro romano costruito nel  I secolo d.C., perfettamente conservato, ed altri monumenti di quell’epoca tra cui l’elegante tempio di Roma e Augusto.

Dopo avere visitato tante città è bene fermarsi nell’oasi di pace di capo Kamenjak, breve penisola senza costruzioni né strade asfaltate, percorribile a pagamento con qualsiasi tipo di auto. Qui si può fare un salutare bagno in acque pulite e concedersi uno spuntino in uno dei tanti piccoli bar sulla spiaggia.

Ci portiamo a questo punto nell’interno della Croazia, prevedendo vista la distanza da percorrere un pernottamento nei dintorni di Rijeka (Fiume), città moderna che non merita una visita turistica. Raggiungiamo quindi  il parco nazionale dei laghi di Plitviĉka. Qui, dopo avere parcheggiato l’auto e pagato un biglietto di ingresso, si può scegliere fra vari itinerari da 2 a 10 ore, da effettuarsi a piedi, in battello o su trenino.  All’interno del parco si trovano sono bar che vendono panini. In questa oasi di pace si passeggia tra boschi fitti, incantevoli laghi di colore verde smeraldo e cascate, con la possibilità di incontrare anche una ricca fauna.

La città che incontriamo successivamente, riportandoci lungo la costa, è Zadar (Zara), molto vivace nella sua parte vecchia costruita su una piccola penisola raggiungibile in auto. Qui meritano una visita le chiese Sv Šimun, Sv Stosija e Sv Donat del IX secolo, ma soprattutto soffermiamoci ad ammirare il tramonto nella parte ovest della città, definito da Alfred Hitchcock il più bello del mondo.

Merita una giornata intera la gita in battello all’arcipelago delle isole Kornati (Incoronate), circa 89 compresi gli isolotti, prive di strade e con poche rustiche abitazioni sulle rive, dotate di fondali marini di straordinaria bellezza. Se potete prolungare il vostro soggiorno, tutti i numerosi arcipelaghi della Croazia meritano una visita.

Proseguiamo quindi  in direzione di Šibenik (Sebenico), e passeggiamo nel suo centro tra vecchie case e palazzetti di gusto veneziano. Notevole la chiesa Sv Jakov, iniziata nel 1431.

Incontriamo poi l’incantevole Trogir (Traù), costruita su di un isolotto raggiungibile a piedi. La città appare come un castello sull’acqua racchiuso da una cerchia di mura,  nel quale sorge la meravigliosa chiesa di Sv Lovro, iniziata nel XII secolo.

Affrontiamo ora quattro ore di viaggio verso sud per visitare Dubrovnik (Ragusa). Quello che ci aspetta è un poderoso e spettacolare sistema fortificato che racchiude il pittoresco centro storico. Le grandi mura, spesse fino a 6 metri, sono percorribili a piedi (l’intero giro dura circa due ore). Una visita meritano anche i monasteri  domenicano e francescano, dotati di incantevoli chiostri.

Tornando verso nord per imbarcarci a Split (Spalato) da cui si ritorna in Italia sbarcando nel porto di Ancona,  ci fermiamo a Solin (Salona) per passeggiare un’ora nella notevole area archeologica con monumenti romani  costruiti dal I al VI secolo.

Giungiamo quindi a Split, la nostra meta, dove  nell’area pedonale possiamo ammirare l’imponente palazzo di Diocleziano lungo 180 metri e largo 215, con mura ancora pressoché intatte. All’interno vi troviamo la bella cattedrale Sv Duje del VII secolo e il battistero di San Giovanni.

A Split alla sera ci possiamo imbarcare e dopo circa 11 ore di navigazione notturna ritornare alle nostre amate sponde, sbarcando ad Ancona.

lunedì 29 giugno 2015

Recensione del romanzo “Per chi suona la campana”


Per chi suona la campana (titolo originale For whom the bell tolls), romanzo pubblicato nel 1940 ad opera dello scrittore e giornalista statunitense Ernest Miller Hemingway, racconta con essenzialità e crudezza un episodio della guerra civile spagnola, vissuta in prima persona dall’autore in veste di corrispondente di guerra tra le fila dell’esercito popolare repubblicano.

Il protagonista Robert Jordan, alter ego dell’autore, è un professore statunitense che nel 1937 sacrifica la propria vita offrendosi come partigiano volontario a sostegno dei repubblicani spagnoli sostenuti dall’URSS nel conflitto contro i fascisti di Francisco Franco aiutati dalla Germania nazista e dall’Italia. La sua missione, ispirata ad alti ideali di libertà e di lotta all’ingiustizia, è di minare un ponte d’acciaio che attraversa una gola tra le colline nella provincia di Segovia in modo da impedire alle linee franchiste di essere raggiunte dai rinforzi.

Robert Jordan, dietro lasciapassare del generale russo Golz, si inoltra tra gli impervi rilievi spagnoli per incontrare due bande di guerriglieri capitanate da duri personaggi di nome El Sordo e Pablo, disposti ad aiutarlo nella pericolosa missione. La storia si svolge in soli quattro giorni, durante i quali il protagonista vive esperienze estreme condividendo le sue giornate con i guerriglieri, mangiando il cibo cucinato dalle loro donne e dormendo in un sacco a pelo all’ingresso della loro caverna. 
Queste giornate sono molto intense per Robert Jordan, che oltretutto si innamora all’istante della bella e fragile Maria, miracolosamente salvata dopo essere stata stuprata dai franchisti.

Presto Robert deve rendersi conto che non c’è molto da  fidarsi di quelle bande scalcagnate ed eterogenee: El Sordo cerca di rubare alcuni cavalli dell’esercito e i franchisti lo uccidono assieme a tutta la sua banda, mentre  Pablo una notte scappa con l’esploditore e i detonatori che dovevano servire a far saltare il ponte, rischiando di inficiare l’importante missione. Il geniale Robert  riesce comunque a distruggere l’imponente struttura in acciaio e alla fine, una volta ferito,  chiede di poter morire da solo.

Robert è un uomo assai coraggioso, dalla forte personalità, e l’autore riesce a renderne mirabilmente i conflitti interiori descrivendone dubbi, sentimenti e pensieri, sottolineando che nessun uomo è indipendente dal resto del mondo e che la guerra è sempre sbagliata, anche nell’eterna lotta fra destra e sinistra.


Per chi suona la campana, romanzo commovente, dramma psicologico ricco di suspense,  descrive personaggi veri, autentici, che si esprimono in un colorato linguaggio popolare. Tra guerra e romanticismo, crudeltà e passione, la morte vi è sempre presente, non temuta in quanto inevitabile: è inutile chiedersi “per chi suona la campana” quando un uomo muore perché prima o poi essa rintoccherà anche per noi.

giovedì 18 giugno 2015

Recensione del film "Youth - La giovinezza"


Youth – La giovinezza, scritto e diretto da Paolo Sorrentino, tratta con poetica delicatezza il tema del tempo che scorre inesorabilmente. Teatro della vicenda è un elegante albergo termale delle Alpi svizzere dove gli ospiti hanno a disposizione anche un moderno centro benessere, nonché piacevoli spettacoli di intrattenimento serale.

Protagonista della storia è l’ottantenne compositore e direttore d’orchestra Fred, interpretato da Michael Caine, in vacanza con la figlia e assistente Leda, interpretata da Rachel Weisz
Fred è un uomo apparentemente apatico e indifferente al mondo esterno, ma in realtà si sa dimostrare un attento osservatore del microcosmo costituito dai bizzarri clienti dell’albergo che lo ospita, tra i quali un palleggiatore sosia di Maradona, una procace Miss Universo, un religioso orientale intento alla levitazione, un attore insoddisfatto, un alpinista sfegatato, una coppia agée e l’amico coetaneo Mick (interpretato da Harvey Keitel), regista che sta lavorando al suo ultimo film-testamento senza riuscire a concluderlo.

Fred non ha le caratteristiche di un nonno, ma di un padre che guarda con curiosità e affetto alla vita confusa della figlia, di un uomo che è ancora capace di apprezzare la bellezza del corpo di una giovane come Miss Universo, però si rammarica di non ricordare ormai più il volto dei suoi genitori. Nel corso della storia l’anziano musicista si rende conto che l’unico modo di restare giovani, almeno nell’animo, è di vivere appieno le proprie emozioni.

Paolo Sorrentino, ormai riconosciuto maestro del cinema  a livello internazionale, con questo film mostra indubbia maturità ed intelligenza nel descrivere con la sua minuziosa sceneggiatura angosce e segreti della terza età, riuscendo anche ad evitare le eccessive stucchevolezze del precedente film da Oscar La grande bellezza.

Youth – La giovinezza, film dal cast stellare,  rappresenta un vero elogio alla leggerezza e, tra battute di indubbio umorismo alternate a momenti di vero dramma, nel confronto fra la giovinezza e la vecchiaia riesce a far emergere la forza della vita in grado di donare all’uomo, dopo un periodo di buia malinconia e disinteresse che può capitare a chiunque, una seconda giovinezza che non ha niente da invidiare all’entusiasmo della gioventù.


giovedì 11 giugno 2015

A proposito di migranti, riprendiamo in mano il romanzo “Furore”


Furore (titolo originale The grapes of wrath, ovvero I grappoli dell’odio) è un romanzo pubblicato dallo scrittore statunitense John Ernst Steinbeck nel 1939, che in Italia venne pesantemente decurtato dalla censura fascista. Solo dal 2013 è finalmente disponibile in libreria in una nuova traduzione integrale.

Ambientato negli Stati Uniti d’America subito dopo la crisi economica e finanziaria del 1929 che ebbe evidenti ripercussioni a livello mondiale nei decenni successivi, non molto diversamente da ciò che sta accadendo oggi, il libro documenta l’esodo di milioni di persone ridotte in miseria che abbandonarono il Midwest per migrare verso la California in cerca di lavoro.

Protagonista della storia è la famiglia Joad dell’Oklahoma, assurta a simbolo di tutti quei  contadini che, non riuscendo a causa di un calo di fertilità della terra a restituire i prestiti concessi dalla banca, vennero espropriati dalle loro fattorie ritenute dai poteri finanziari non più redditizie. Le banche non solo non rinnovarono i crediti, ma spianarono ogni cosa con le trattrici, persino le case ancora abitate.

La storia inizia con il ritorno a casa di Tom , maggiore di sei figli di una famiglia contadina povera ma dignitosa, rilasciato sulla parola dopo avere scontato parte di una pena per omicidio. Costretta a lasciare la casa e la terra in cui viveva da decenni, la famiglia Joad che consta di tre generazioni affronta un viaggio epocale a bordo di un autocarro lungo la interminabile Route 66 attraverso Texas, New Mexico e Arizona, sperando in un futuro decente una volta giunti nella fiorente California.

Purtroppo niente avviene come sperato: i nonni muoiono uno dopo l’altro durante il viaggio massacrante, Tom si macchia di un secondo omicidio e la sorella diciassettenne Rose of Sharon, dopo essere stata abbandonata dal giovane marito, durante il tragitto partorisce un bambino morto.

La California finalmente raggiunta non è come la famiglia Joad si aspettava: nonostante la presenza di fertili terre sterminate anche lì c’è miseria e l’eccesso di richiesta di lavoro porta a ribassare i salari a giornata fino a livelli disumani, rendendo gli uomini schiavi e affamati. Gli abitanti di questo Stato negano qualsiasi diritto civile agli immigrati e li sfruttano all’inverosimile, nonostante siano statunitensi come loro.

Romanzo simbolo della grande depressione americana degli anni Trenta, Furore è un vero capolavoro che raccontando la trasmigrazione della famiglia Joad  ci fa rivivere la trasformazione di un’intera nazione fondata sui valori della terra e della famiglia.

Vera protagonista della storia è l’ingiustizia che padroneggia quando il denaro e il potere si concentrano nelle mani di pochi detentori senza scrupoli. Raccontando le sofferenze dei più miseri attraverso i loro gesti e sguardi, Steinbeck con questo romanzo si dimostra maestro di realismo e attraverso la sua scrittura asciutta riesce a far rivivere perfettamente il più che giustificato furore dei migranti, finendo per inculcare anche al lettore una certa dose di rabbia.


giovedì 14 maggio 2015

Recensione del romanzo “Lo straniero” di Albert Camus



Il romanzo Lo straniero (L’ètranger), ad opera dello scrittore e filosofo anarchico Albert Camus, tratta dell’assurdità della vita e della ineluttabile irrazionalità del destino.
Pubblicato nel 1942, il libro narra le ultime settimane di vita di un giovane impiegato di origine francese che vive ad Algeri, di nome Meursault. La storia si apre con la morte della madre del protagonista, contraddistinta dalla apatica assenza di emozioni nel modesto impiegato durante il rito funebre. Soltanto poche ore dopo la funzione, Meursault comincia ad intrecciare una relazione con una ex collega che presto si innamora di lui al punto da volerlo sposare, ma anche in questa circostanza l’uomo non viene minimamente scalfito da emozioni o sentimenti.

Per una serie di accadimenti casuali, il protagonista della storia durante un torrido pomeriggio si macchia di un omicidio, compiuto su una spiaggia a colpi di pistola, forse solo per noia. Segue il processo, durante il quale si discute a lungo della totale assenza di rimorso in Meursault, alla ricerca della sua anima da criminale, nel rifiuto da parte di tutti gli astanti che un uomo possa uccidere per caso.

Indifferente a sé e al mondo, a tratti totalmente estraniato dalla realtà, l’impiegato di Algeri durante il processo in cui è imputato non cerca giustificazioni e non si vuole difendere con menzogne. Sembra guardare se stesso dall’esterno, ritenendo che il fatto accaduto sia davvero accidentale, e accetta persino la condanna a morte con indifferenza.
Meursault è straniero nei confronti di se stesso e degli altri, senza ambizioni neanche sul lavoro, vive nella sua normalità con indifferenza e alienazione, estraniandosi dalla realtà. 

Albert Camus con questa opera imperniata sul cinismo narrata in prima persona, dagli evidenti spunti autobiografici, si pone come radicale esponente dell’esistenzialismo, smarrito e annichilito dalla mancanza di risposte,  in balìa del destino ineluttabile che conduce sempre e comunque soltanto alla morte.

domenica 10 maggio 2015

Recensione del romanzo “I miserabili” di Victor-Marie Hugo



Vale sicuramente la pena di accingersi a leggere le 1440 pagine del romanzo storico I miserabili (titolo originale: Les misérables), grandiosa opera dello scrittore e statista francese Victor-Marie Hugo. Pubblicato nel 1862, questo capolavoro narra le vicende di molteplici personaggi appartenenti per lo più agli strati bassi della società parigina, quali ex forzati, prostitute e in generale miseri peccatori, negli anni dal 1815 al 1833, periodo assai turbolento per la Francia appena uscita dalla Rivoluzione e dalle Guerre napoleoniche.

Il romanzo si apre con la storia del vescovo di Digne, uomo di grande elevatezza morale, alla cui abitazione un  giorno per caso capita  Jean Valjean, un robusto potatore 46enne che a causa di un furto di pane tentato per sfamare sorella e nipoti era stato condannato a 5 anni di lavori forzati nel carcere di Tolone. A causa di ripetute evasioni, al forzato sono stati comminati altri 14 anni di pena detentiva. Una volta uscito definitivamente di prigione, Jean Valjean ormai totalmente reietto dalla società si è convinto di possedere davvero una natura malvagia e si macchia di un furto anche nella casa del buon vescovo, l’unico che gli abbia offerto una cena e un letto su cui dormire. Dopo avere estorto anche una  moneta d’argento ad un bambino incontrato per strada, il protagonista della storia comincia la sua redenzione e si rende finalmente conto che non è certo quella del ladro la sua vera natura. Finalmente deciso a cambiare vita, si stabilisce a Montreuil-sur-mer sotto falso nome, dove impianta una fiorente industria di bigiotteria. Uomo dalla personalità assai complessa, grazie alla sua ritrovata carità e bontà viene eletto sindaco della città e una volta divenuto ricco dimostra sempre maggiore generosità verso i più miseri e reietti.

A Montreuil-sur-mer, però, il destino mette sulle sue tracce l’ispettore di polizia Javert già secondino nel carcere di Tolone dove Jean Valjean era stato recluso per tanti anni. Parallelamente, Victor Hugo racconta con dovizia di particolari gli accadimenti storici del periodo, per poi passare a narrare la triste storia di Fantine, ragazza madre che per indigenza è costretta ad affidare l’amata figlia Cosette di 3 anni ad una malvagia coppia di Montfermeil.

A Montreuil-sur-mer   Valjean incontra Fantine già seriamente ammalata, cerca di prestarle soccorso e sul suo letto di morte le giura che si occuperà della bambina, ma subito dopo la coscienza gli impone, una volta riconosciuto dall’ispettore Javert, di lasciarsi arrestare per i furti commessi in passato subito dopo la sua scarcerazione. Presto l'istinto di libertà lo spinge ad evadere dai lavori forzati mentre si trova su di un vascello, simulando la propria morte durante una tempesta.

La missione di Jean Valjean è di recarsi a Montfermeil a salvare Cosette, la figlia di Fantine, dopo aver nascosto tutti i suoi averi in un bosco seppellendoli ai piedi di una quercia. Una volta riscattata la bambina, l’ex forzato si stabilisce a Parigi con lei colmandola di attenzioni e ricomincia ad aiutare gli oppressi, ma l’ispettore Javert lo individua nuovamente.

Dopo essere fuggito con la bambina, Jean Valjean si nasconde 5 anni all’interno di un convento gestito da suore, dove la piccola viene educata e si trasforma da selvaggia in una signorina bella ed elegante. In seguito, l’innamoramento di Cosette per il giovane avvocato Marius cambia i piani di Valjean, il quale si vede costretto per il profondo affetto che prova verso la ragazza a salvare  la vita del giovane mentre sta combattendo sulle barricate durante gli scontri fra rivoluzionari e soldati di Luigi Filippo. Marius sposa Cosette, ma informato da Valjean riguardo al suo passato di galeotto si sente obbligato ad allontanarlo  dalla sua famiglia. Ormai 64 enne, Valjean  si ammala anche per il dolore dovuto alla lontananza da Cosette, ma almeno alla fine non muore solo.


Il romanzo I miserabili, che designa Hugo padre del romanticismo francese, è un’opera epica realizzata in 48 libri durante 15 anni di stesura che non può lasciare il lettore indifferente, soprattutto per la sua profonda riflessione sociale. Tra perfette e calzanti descrizioni di molteplici personaggi, i quali vengono più volte messi da parte dall’autore e quindi fatti riapparire all’improvviso nel corso dell’intricata vicenda, tra cadute e risalite, peccati e redenzioni, intrecci, colpi di scena spettacolari e coinvolgenti, il romanzo narra di una vita spesa a favore degli altri e del difficile riscatto dopo l’emarginazione. Nel romanzo c’è molto di più della storia di un galeotto forte e rozzo redento da un vescovo di provincia, ci sono gli aspetti più profondi della coscienza di un uomo, nonché le radici sotterranee di quella grande nazione che è oggi la Francia.

lunedì 13 aprile 2015

Recensione del romanzo “Tenera è la notte”



Tenera è la notte  (Tender is the night) è il secondo romanzo ad opera dello scrittore e sceneggiatore statunitense Francis Scott Key Fitzgerald, pubblicato nel 1934 dopo nove anni di faticosa stesura. I protagonisti della storia sono gli eleganti  americani dell’alta società degli anni Venti, espatriati in Europa  per godersi la vita trascorrendo interminabili villeggiature nelle prestigiose località montane della Svizzera e sui litorali della Costa Azzurra.

La storia narra dell’incontro avvenuto nel 1925 su una spiaggia francese fra l’attrice diciottenne Rosemary Hoyt, lo psichiatra Dick Diver e sua moglie, la bella e ricca ereditiera Nicole Warren. Circondati da infelici personaggi dalla moralità discutibile, corrotti e volgari, Rosemary e Dick si invaghiscono subito l’una dell’altro, vivendo una relazione inizialmente quasi platonica che, quando verrà finalmente consumata qualche anno più tardi nella meravigliosa Roma, sfumerà in un attimo.

Dopo l’introduzione,  l’autore nel romanzo utilizza la tecnica dei flashback per illustrare al lettore il precedente incontro dello psichiatra e scrittore Dick con Nicole appena sedicenne, ricoverata in una clinica svizzera per schizofrenia. Frequentando quella ragazza di cui la famiglia non vede l’ora di liberarsi, Dick comprende che prendersi cura di lei per tutta la vita costituisce la sua occasione di riscatto morale e la sposa. 

Dopo soli quattro anni dall’incontro con Rosemary, il difficile matrimonio di Dick e Nicole, coronato dall’arrivo di due figli, finisce in cenere. Il bel dottore dagli occhi azzurri diviene un alcolizzato triste e irascibile e da uomo brillante e affascinante si trasforma in una macchietta, rendendosi ridicolo persino agli occhi della moglie Nicole.


In questo romanzo, che affronta temi quali il ménage delle coppie sposate, il disagio generazionale, la depressione e l’alcolismo, Fitzgerald  mette molto di se stesso, dipendente a sua volta dall’etilismo e vittima di una vita  dissoluta, senza contare che anche sua moglie Zelda dopo un tentato suicidio venne ricoverata in una clinica psichiatrica per schizofrenia. Lo scrittore in questa opera  ci offre un perfetto approfondimento psicologico dei personaggi utilizzando una scrittura scorrevole capace di accostare il lettore per gradi alla drammaticità dei temi  affrontati.

venerdì 20 febbraio 2015

Al cinema una commedia esilarante: “Non sposate le mie figlie!”


Non sposate le mie figlie! (titolo originale Qu’est-ce qu’on a fait au bon Dieu?), diretta dal regista e sceneggiatore francese Philippe de Chauveron,  è una commedia ben condotta che fa letteralmente sbellicare dalle risate, ironizzando sulle paure e sui preconcetti di una borghesia di provincia che vuole stare al passo con i tempi.

I coniugi francesi Verneuil, cattolici e gollisti, hanno generato quattro belle figlie, allevandole secondo sani princìpi di tolleranza verso gli immigrati, senza immaginare quanto questa educazione possa sfociare in atteggiamenti di apertura mentale assai difficili da digerire per gli anziani genitori.

Le prime tre figlie, infatti, sposano a breve distanza l’una dall’altra rispettivamente un algerino musulmano, un ebreo e un cinese, i quali pur ben integrati e benestanti  (esercitano le professioni di avvocato, imprenditore e banchiere), tengono ciascuno alle proprie origini e usanze, estremamente differenti le une dalle altre. La situazione familiare diventa molto complicata soprattutto alle feste comandate, quando nel goffo tentativo di non offendere nessuna delle tre culture i genitori delle ragazze incappano inesorabilmente in memorabili gaffe.

Quando finalmente la quarta figlia, la più giovane, annuncia che presto almeno lei sposerà un cattolico i coniugi Verneuil sono al settimo cielo, ma la situazione precipita quando al primo incontro con il futuro genero essi apprendono con costernazione che si tratta di un africano della Costa d’Avorio, di professione attore. Tutti cercano di osteggiare il quarto matrimonio, tra cui le sorelle della futura sposa, i tre generi che vedono inficiati dall’intruso i loro goffi tentativi di mediazione culturale all’interno della famiglia e persino il padre del futuro sposo, ex-militare apertamente ostile all’imperialismo francese. I colpi di scena esilaranti non mancano anche in questa fase della storia, nell'accompagnare lo spettatore verso l’immancabile lieto fine.


La morale di questa favola moderna è che siamo tutti tolleranti finché lo straniero non entra  proprio in casa nostra portandoci via gli affetti più preziosi e che anche a chi si definisce decisamente antirazzista è necessario un certo sforzo per raggiungere la vera tolleranza.

giovedì 15 gennaio 2015

The imitation game: la recensione



The imitation game, film drammatico diretto dal regista norvegese Morten Tyldum, racconta la storia di un uomo fragile ma assolutamente geniale, manipolato dai poteri forti a fini bellici. La vicenda si apre a Manchester, nell’Inghilterra puritana dei primi anni Cinquanta, quando un perspicace agente di polizia intuisce che dietro all’espressione apparentemente smarrita del brillante matematico e crittoanalista Alan Turing, magistralmente interpretato dall’attore britannico Benedict Cumberbatch, si cela un segreto di Stato.

Alan Turing, personaggio storico pressoché sconosciuto fino a poco tempo fa, è il matematico che durante la Seconda guerra mondiale mise le proprie capacità intuitive al servizio dell’Inghilterra, dedicandosi giorno e notte ad un progetto top secret per decriptare il codice Enigma, utilizzato dalle potenze dell’Asse come mezzo di comunicazione segretissimo.

Il matematico di Manchester, uomo asociale ai limiti dell'autismo, assieme ad uno sparuto gruppo di cervelloni polacchi fuoriusciti dal loro Paese dopo l’invasione nazista, ad un campione di scacchi e ad un’esperta di enigmistica, riuscì ad ideare un complicato congegno, a cui conferì il nome Christopher  (colui che porta Cristo)  che consentì, decifrando il codice Enigma durante la guerra, di conoscere in dettaglio tutti i movimenti del nemico e di vincere con almeno due anni di anticipo un sanguinoso conflitto che altrimenti avrebbe privato della vita altri milioni di persone.

Alan Turing in The imitation game appare assai abile nel sottile gioco di sotterfugi e contraffazioni  di cui si servono i Servizi segreti, poiché abituato fin da bambino a fingere per la paura di mostrare il suo Io più profondo a chi non potrebbe capirlo. Soggiogato dallo smodato desiderio di affrontare problemi apparentemente irrisolvibili, questo genio della matematica offre all’Inghilterra tutto il suo talento, per poi, una volta assolto il proprio compito, venire perseguitato per la sua omosessualità, a quei tempi illegale. Condannato alla castrazione chimica, ovvero obbligato ad assumere farmaci a base di ormoni che agiscono sul cervello inibendo la libido, Alan Turing  nel 1954 pone fine alla sua vita con un suicidio per avvelenamento, a  soli 41 anni.

The imitation game, pur utilizzando in maniera eccessiva il ricorso al flashback, ha il pregio non indifferente di restituire a questo fragile padre dell’informatica teorica, senza il quale forse oggi non esisterebbe nemmeno il computer, i  dovuti onori che il segreto di Stato gli ha voluto negare fino a pochi anni fa.